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Non metterò in dubbio le asserzioni dei Fremen, di essere ispirati dalla divinità a diffondere una religione rivelata. È quando vi aggiungono una «ideologia» rivelata che mi sento spinto a deriderli. Naturalmente, essi sostengono questa duplice asserzione nella speranza che ciò rinforzi la loro assoluta supremazia e li aiuti a sopportare un universo che li giudica sempre più oppressivi. È in nome di tutti questi popoli oppressi che io ammonisco i Fremen: ogni successo a breve termine non resiste mai alla prova del tempo.
– Il Predicatore ad Arrakeen
Nella notte, Leto salì insieme a Stilgar sulla cresta del basso contrafforte roccioso che spuntava dal deserto, ed era chiamato l’Attendente dalla gente di Sietch Tabr. Sotto la luce sempre più fievole della Seconda Luna, contemplarono, da quella sporgenza, il vasto panorama: il Muro Scudo col monte Idaho a nord, la Grande Distesa a sud e le dune ondulate a est, in direzione della catena di Habbanya. Turbini di polvere, le estreme propaggini di una tempesta, nascondevano l’orizzonte meridionale. La luce della luna creava un bordo di luminescenza vitrea sulla cresta del Muro Scudo.
Stilgar l’aveva accompagnato fin lì contro la propria volontà, accettando infine soltanto perché Leto aveva destato la sua curiosità. Perché mai era necessario rischiare una traversata notturna della sabbia? Il ragazzo aveva minacciato di sgattaiolare via e di compiere l’impresa da solo, se Stilgar si fosse rifiutato. Tuttavia, era il modo in cui lo stavano facendo che lo preoccupava vivamente. Due bersagli così importanti, soli, di notte!
Leto era acquattato sulla sporgenza e guardava verso sud, in direzione della Grande Distesa. Di tanto in tanto si batteva il ginocchio, come in preda alla frustrazione.
Stilgar attese. Era assai bravo, quando si trattava di aspettare in silenzio. Era a due passi dal suo protetto, immobile, le braccia conserte, la veste che si agitava debolmente alla brezza notturna.
Per Leto, quella traversata della sabbia rappresentava una reazione alla disperazione interiore, un bisogno di cercare un nuovo equilibrio per la sua vita, in un silenzioso conflitto che Ghanima non poteva rischiare più a lungo. Aveva manovrato in modo che Stilgar si unisse a lui in quell’avventura, poiché c’erano cose che Stilgar doveva sapere, per prepararsi ai giorni che lo aspettavano.
Leto tornò a picchiarsi il ginocchio con la mano. Quant’era difficile riconoscere un inizio! A volte si sentiva come una pura estensione di quelle altre innumerevoli vite, tutte vere e tangibili come la sua. Nel fluire di quelle vite non c’era un fine, nessun completamento: soltanto un eterno inizio. Esse potevano rivelarsi una folla convulsa, vociante, che urgeva verso di lui come all’unica finestra attraverso la quale ciascuna voleva guardare. E lì si nascondeva il pericolo che aveva distrutto Alia.
Leto scrutò la tempesta lontana inargentata dalla luce della luna. L’infinita marezzatura delle dune si perdeva alle estreme lontananze: spolverio di silicio disperso dal vento e riaccumulato in forma di onde… granelli impalpabili, sabbia ruvida, ciottoli. Si sentì intrappolato in uno di quei momenti d’immobilità assoluta che precedevano l’alba. Il tempo premeva su di lui. Era già il mese di Akkad, e la lunga attesa si stendeva dietro di lui, fatta di lunghi giorni caldi e di venti caldi e aridi, e di notti come quella, tormentate dalle raffiche e dall’interminabile soffio che esalava dalla lontana fornace del Bled dell’Avvoltoio. Si voltò a fissare, alle sue spalle, il Muro Scudo, un profilo spezzato alla luce delle stelle. Oltre quel muro, nel Bacino Meridionale, si trovava il punto focale del suo problema.
Ancora una volta guardò il deserto. Mentre fissava la calda oscurità, cominciò ad albeggiare. Il sole spuntò fra gli strati di polvere e aggiunse una sfumatura giallo-limone alle striature rosse della tempesta. Leto chiuse gli occhi, e s’impose di contemplare quel nuovo giorno come l’avrebbero visto ad Arrakeen. La città comparve davanti a lui, nella sua coscienza, una spruzzata di contenitori cubici, casse, scatole, che disegnavano ombre nella nuova luce. Deserto… scatole… deserto… scatole…
Riaprì gli occhi: il deserto era ancora lì, davanti a lui, una distesa color curry di sabbia sconvolta dal vento che si stendeva a perdita d’occhio. Ombre oleose alla base di ogni duna si allungavano come raggi di oscurità dalla notte appena trascorsa, unendo un tempo all’altro. Leto pensò alla notte trascorsa, accovacciato lì sopra, con Stilgar accanto a lui, il vecchio Naib preoccupato per quel silenzio e le ragioni non spiegate che li avevano spinti fin laggiù, quella notte. Quel luogo doveva esser pieno di ricordi per Stilgar, che già vi era stato col suo amato Muad’Dib. Stilgar… che continuava a scrutare, attento, i dintorni, pronto a cogliere il primo accenno di pericolo. A Stilgar non piaceva trovarsi all’aperto, alla luce del giorno. In questo, era un tipico, vecchio Fremen.
La mente di Leto era riluttante ad abbandonare la notte e la fatica rivitalizzante della traversata delle sabbie. Quand’erano giunti là, su quelle rocce, la notte aveva assunto la sua nera immobilità. Egli capiva i timori di Stilgar per la luce del giorno. Il nero era una cosa sola, anche quando ribolliva d’innumerevoli terrori. La luce poteva essere molte cose. La notte esalava gli odori della paura e le sue tenebrose creature si avvicinavano con sinistri fruscii. Nella notte le dimensioni si dilatavano, tutto diventava più grande, più intenso… le spine erano più acuminate, le lame più taglienti.
Ma i terrori del giorno potevano essere anche peggiori.
Stilgar si schiarì la gola.
Leto parlò senza voltarsi: – Ho un problema molto serio, Stilgar.
– L’avevo sospettato. – La voce accanto a Leto era bassa e guardinga. Il bimbo aveva parlato, inquietante, come il padre, sfiorando quella magia proibita che suscitava la ripugnanza di Stilgar. I Fremen conoscevano i terrori della possessione. Chiunque venisse scoperto in preda alla possessione veniva giustamente ucciso e la sua acqua era sparsa sulla sabbia per paura che contaminasse la cisterna della tribù. I morti dovevano restare morti. Sì, i figli erano l’unica forma giusta d’immortalità, ma un figlio non aveva alcun diritto di assumere una forma troppo somigliante a qualcosa che usciva dal passato.
– Il mio problema… sono le troppe cose lasciate incompiute da mio padre, – disse Leto. – E per di più in un punto cruciale della nostra esistenza. L’Impero non può continuare così, Stilgar, senza dare il giusto valore alla vita umana. La vita, Stilgar, capisci? Sto parlando della vita, non della morte.
– Un giorno, turbato da una visione, tuo padre mi disse l’identica cosa, – fece Stilgar.
Leto scoprì la tentazione di esorcizzare, ridendo, quella cupa presenza accanto a lui, piena di dubbi e paure, con una frivola risposta, forse un invitò a interrompere il digiuno. All’improvviso, si era sentito cogliere dai morsi della fame. Avevano fatto l’ultimo pasto il giorno prima, a mezzodì, ed egli stesso aveva insistito perché digiunassero tutta la notte. Ora, però, un’altra fame lo faceva spasimare.
Il problema della mia vita è inesorabilmente legato a questo luogo, pensò Leto. Nessuna creazione preliminare. Io, semplicemente, vado indietro… indietro, fino a quando le distanze svaniscono. Non riesco a vedere l’orizzonte; non riesco a vedere la catena di Habbanya. Non riesco a trovare il luogo originale della Prova.
– Non esiste in realtà nessun sostituto della prescienza, – disse Leto. – Forse dovrei rischiare con la spezia…
– Ed essere distrutto come lo è stato tuo padre?
– Un tragico dilemma, – commentò Leto.
– Un giorno tuo padre si confidò con me e mi disse che conoscere troppo bene il futuro significa trovarsi imprigionati in esso, privi di qualunque possibilità di cambiamento.
– Il nostro problema è il paradosso, – proseguì Leto. – La prescienza è qualcosa di elusivo e potente. Il futuro diventa l’adesso. Ricevere il dono della vista in una terra di ciechi porta con sé gravi pericoli. Se cerchi di descrivere ai ciechi ciò che vedi, tendi a dimenticarti che un cieco procede in un modo intrinseco alla sua cecità. I ciechi sono simili a macchine mostruose che si muovono, inarrestabili, lungo le proprie strade. Hanno una loro velocità, un rigido funzionamento. Io ho paura dei ciechi, Stil. Ho paura di ciò che essi sono. Possono schiacciare con troppa facilità tutto ciò che si trova sulla loro strada.
Stilgar fissò il deserto. L’alba color limone si era trasformata in un giorno color acciaio. Chiese: – Perché siamo venuti fin qui?
– Perché voglio che tu veda il luogo dove potrei morire.
Stilgar s’irrigidì, e replicò: – Allora hai avuto una visione?
– Forse era soltanto un sogno.
– Perché siamo venuti in un luogo così pericoloso? – Stilgar fissò corrucciato il suo protetto. – Rientriamo subito.
– Non morirò oggi, Stil.
– No? Che cos’era questa visione?
– Ho visto tre strade aprirsi davanti a me, – spiegò Leto. La voce gli uscì dalla bocca col suono cantilenante del ricordo. – Uno di questi tre futuri esige che io uccida nostra nonna.
Stilgar lanciò dietro di sé una fulminea occhiata, in direzione di Sietch Tabr, come se temesse che Lady Jessica potesse udirli attraverso la distesa sabbiosa. – Perché?
– Per impedirci di perdere il monopolio della spezia.
– Non capisco.
– Neppure io. Ma è questo che io penso, nel mio sogno, quando brandisco il pugnale.
– Oh. – Stilgar capiva fin troppo bene il significato del pugnale. – E la seconda strada?
– Ghani ed io ci sposiamo, onde perpetuare il seme intatto degli Atreides.
– Ghasa! – Stilgar espulse tutta l’aria dai polmoni, in una violenta interiezione di disgusto.
– Era usuale, un tempo, per i re e le regine, – si affrettò a dire Leto. – Ma Ghani ed io abbiamo già deciso che non procreeremo insieme!
– T’invito ad attenerti saldamente a questa decisione! – C’era la morte nella voce di Stilgar. Secondo la legge dei Fremen, l’incesto andava punito con la morte sul tripode delle impiccagioni. Si schiarì la gola e chiese: – E la terza strada?
– Mio padre andrà ricondotto a statura umana.
– Muad’Dib era mio amico, – mormorò Stilgar.
– Non il tuo amico… il tuo dio! Dovrò togliergli la divinità.
Stilgar voltò la schiena al deserto e guardò in direzione dell’oasi del suo amato Sietch Tabr. Simili discorsi lo turbavano profondamente.
Leto avvertì, nel movimento di Stilgar, l’acida esalazione del sudore. Sarebbe stato così facile evitare ciò che, invece, andava detto! Avrebbero potuto discorrere per mezza giornata, passando dal concreto all’astratto, tenendosi accuratamente lontano da ciò che era realmente importante, dalle necessità immediate che dovevano affrontare, dalle decisioni più impellenti. Non c’era dubbio, ad esempio, che la Casa di Corrino costituiva un’autentica minaccia alla sua vita, e a quella di Ghani. Eppure, tutto ciò che avrebbero deciso di fare in proposito, adesso, doveva ubbidire ad altre necessità, più segrete. In passato, Stilgar aveva votato per l’assassinio di Farad’n, compiuto nel modo più segreto ed efficace, col chaumurky, il veleno da somministrarsi in una bevanda. Si sapeva che Farad’n aveva un debole per certi liquori dolci… Eppure no, non andava fatto.
– Se morirò qui, Stil, – disse Leto, – dovrai guardarti da Alia. Non è più tua amica.
– Che cos’è questo tuo discorso di morte… e di tua zia? – Ora Stilgar si sentì veramente oltraggiato. Uccidere Lady Jessica! Guardarsi da Alia! Morire qui!
– Uomini insignificanti cambiano volto e partito ad ogni suo minimo cenno, – proseguì Leto. – Eppure, un sovrano non ha bisogno d’essere un veggente, Stil. E neppure un dio. Dev’essere soltanto sensibile e accorto. Ti ho condotto qui per chiarirti ciò di cui ha urgente necessità il nostro Impero. Un buon governo. E questo non dipende dalle leggi o dai precedenti, ma dalle qualità personali di chiunque governi.
– La Reggente svolge i suoi doveri imperiali molto bene, – dichiarò Stilgar. – Quando tu sarai grande…
– Ma io sono grande! Io sono la persona più vecchia, qui! Tu sei un lattante, al mio confronto. Io riesco a ricordare fatti e persone che risalgono a più di cinquanta secoli fa. Ah! Posso addirittura ricordarmi di quando noi Fremen eravamo su Thurgrod.
– Perché giochi con simili fantasie? – gli chiese Stilgar, in tono perentorio. Leto annuì fra sé. Perché, poi? Perché parlare dei suoi ricordi di secoli lontani? Il suo problema immediato erano i Fremen di oggi: la maggior parte di loro erano ancora dei selvaggi, semi-domati, propensi a farsi beffe di ogni persona tollerante e pacifica.
– Un cryss si dissolve alla morte del suo padrone, – disse ancora Leto. – Muad’Dib si è dissolto. Perché i Fremen sono ancora vivi?
Era uno di quegli improvvisi mutamenti di rotta, nei suoi pensieri, che sconvolgevano le idee di Stilgar il quale, per un attimo, non seppe che cosa rispondere. Parole come quelle che aveva appena udito possedevano un significato, ma il loro scopo gli sfuggiva.
– Ci si aspetta che io diventi imperatore… ma dovrò essere il servo – rispose Leto. Lanciò un’occhiata a Stilgar, al suo fianco. – Mio nonno, da cui ho preso il nome, aggiunse alcune parole al suo stemma, quando giunse su Dune: «Qui sono, qui resto.»
– Non aveva altra scelta, – osservò Stilgar.
– Benissimo, Stil. Neanch’io ho scelta. Io dovrei essere Imperatore per diritto di nascita, per la squisitezza del mio carattere, per ciò che custodisco dentro di me. E so perfino ciò che l’Impero richiede: un buon governo.
– Naib ha un antico significato, – replicò Stilgar. – Vuol dire «servitore del Sietch.»
– Non ho dimenticato i tuoi insegnamenti, Stil, – disse Leto. – Per essere ben governata, una tribù deve poter scegliere un uomo la cui vita personale rifletta il modo in cui un governo dovrebbe comportarsi.
Dalle profondità della sua anima Fremen, Stilgar replicò: – Tu indosserai il manto imperiale se lo meriterai. E per prima cosa, dovrai provare che sai comportarti come un sovrano!
Inaspettatamente, Leto scoppiò a ridere. Poi: – Dubiti della mia sincerità, Stil?
– Naturalmente no.
– E il mio diritto di primogenitura?
– Tu sei colui che sei.
– E se farò quello che ci si aspetta da me, questa sarà la misura della mia sincerità, non è vero?
– È la regola dei Fremen.
– Allora, non mi è consentito avere dei sentimenti, dentro di me, che guidino il mio comportamento?
– Non capisco…
– Io dovrò sempre comportarmi impeccabilmente, non importa quanto mi costerà sopprimere i miei desideri, non è vero? Questo voi volete da me?
– Questa è l’essenza dell’autocontrollo, giovanotto.
– Giovanotto! – Leto scosse la testa. – Ah, Stil, tu mi hai dato la chiave dell’etica del governare. Io dovrò agire sempre nell’identico modo, ogni mia azione dovrà essere conforme alle tradizioni del passato.
– Giusto.
– Ma il mio passato va più indietro del tuo!
– Che differenza…
– Io non possiedo la prima persona singolare, Stil. Io sono una persona multipla, col ricordo di tradizioni molto più antiche di quanto tu possa immaginare. Questo è il mio fardello, Stil. Io sono tutto orientato verso il passato. Trabocco di conoscenze innate che resistono a ogni novità, al mutamento. Eppure, Muad’Dib è riuscito a cambiare tutto questo. – Indicò con un ampio gesto del braccio il deserto, comprendendovi il Muro Scudo, alle sue spalle.
Stilgar si voltò per scrutare il Muro Scudo. Un villaggio era stato costruito alla base del muro, all’epoca di Muad’Dib, una manciata di case per alloggiarvi una squadra di planetologi i quali aiutavano a diffondere la vita vegetale nel deserto. Stilgar fissò quell’intrusione nel paesaggio, opera dell’uomo. Mutamento? Sì. La presenza di quel villaggio richiedeva, da lui, uno sforzo di adattamento, era concreto, reale… una realtà che lo offendeva. Restò immobile e silenzioso, ignorando il prurito delle particelle di sabbia sotto la tuta distillante. Quel villaggio offendeva ciò che il pianeta era stato. Improvvisamente Stilgar desiderò che una tromba d’aria balzasse sopra le dune e cancellasse in pochi attimi quegli edifici. L’intensità del desiderio lo lasciò tremante e spossato.
Leto disse: – Hai notato, Stil, quanto sono malfatte le nuove tute distillanti? Le nostre perdite d’acqua sono troppo elevate.
Stilgar si arrestò quando già gli urgevano sulle labbra le parole: Non lo dico sempre? Si limitò a commentare: – La nostra gente dipende sempre più dalle pillole.
Leto annuì. Le pillole modificavano la temperatura corporea, riducevano le perdite d’acqua. Erano più economiche e più facili a usarsi delle tute distillanti. Ma causavano altri inconvenienti: un’eccessiva lentezza di reazione e, occasionalmente, alterazioni alla vista.
– È per questo che siamo venuti qua fuori? – chiese Stilgar. – Per discutere la fabbricazione delle tute?
– Perché no? – replicò Leto. – Dal momento che non vuoi affrontare ciò di cui ti debbo parlare.
– Perché devo guardarmi da tua zia? – C’era rabbia nella sua voce.
– Perché Alia sfrutta l’antico desiderio dei Fremen, di resistere ai mutamenti, eppure sarà portatrice di cambiamenti molto più terribili di quanto tu possa immaginare.
– Tu esageri le cose! Alia è una Fremen in tutto e per tutto!
– Ahh, il vero Fremen è pronto a piegarsi al dominio del passato, ed io ho un antichissimo passato. Stil, se io dovessi dar libero sfogo a questa propensione, esigerei una società chiusa, completamente legata alle sacre tradizioni. Porrei il più rigido controllo ai viaggi e alle migrazioni, giustificandolo col fatto che essi incoraggiano le nuove idee, e le nuove idee sono una minaccia all’intera struttura della vita. Ogni piccola collettività planetaria seguirebbe la sua strada, trasformandosi a piacimento. E alla fine l’Impero andrebbe in frantumi sotto il peso delle sue stesse diversità.
Stilgar non poté far altro che trovarsi d’accordo: le situazioni cambiavano. Come ci si doveva comportare, allora? Fissò il deserto, al di là di Leto, senza quasi vederlo. Muad’Dib aveva camminato laggiù. Il sole, che s’innalzava sull’orizzonte, tracciava un immenso mosaico di ombre dorate sulla distesa di sabbia, sfumature purpuree, venature d’arenaria corrosa sormontate da sbuffi di polvere. La foschia perennemente sospesa sopra la catena di Habbanya era visibile, molto in distanza, e il deserto si disegnò, preciso, davanti a lui, con le sue dune che via via rimpicciolivano, fondendosi le une nelle altre alle estreme lontananze. Stilgar, attraverso il vaporoso tremolio dell’aria che si scaldava, vide le piante che si stendevano, strisciando, fuori dal bordo del deserto. Muad’Dib aveva fatto sì che la vita spuntasse in quel luogo desolato. Fiori rossi, dorati, bronzei, gialli, marrone, fulvi, foglie grigio-verdi, spighe e ombre aguzze sotto i cespugli. L’agitazione termica del giorno nascente faceva ondeggiare le ombre, quasi fossero fantasmi nell’aria.
Qualche istante dopo, Stilgar disse: – Io sono un capo Fremen, tu sei figlio di un Duca.
– Non sapendo ciò che dicevi, l’hai detto, – replicò Leto.
Stilgar si aggrondò. Un giorno, molto tempo prima, Muad’Dib l’aveva rimproverato allo stesso modo.
– Ricordi, non è vero, Stil? – chiese Leto. – Eravamo sotto la catena di Habbanya e quel capitano dei Sardaukar… qual era il suo nome? Aramshan, non è vero?… uccise il suo amico per salvare se stesso. E tu ci avevi ammonito più volte, quel giorno, di non fare grazia della vita ai Sardaukar che avessero visto i nostri segreti. Dicesti, anche, che avrebbero finito per rivelare ciò che avevano visto; dovevano essere uccisi. E mio padre disse: «Non sapendo ciò che dicevi, l’hai detto.» E tu non provasti alcun piacere. Anzi, gli rinfacciasti che tu eri un semplice capo dei Fremen. I Duchi dovevano sapere cose molto più importanti.
Stilgar fissò Leto. Eravamo sotto la catena di Habbanya! Noi! Quel… quel bambino, il quale, in quel lontano giorno, non era stato ancora concepito, sapeva ciò che era accaduto fin nei minimi particolari, quei particolari che potevano esser noti soltanto a chi si fosse trovato sul posto. E questa era soltanto un’altra prova che i gemelli Atreides non potevano essere giudicati secondo i criteri usuali.
– Ora, dunque, mi ascolterai, – riprese Leto. – Se io dovessi morire, o scomparire nel deserto, tu, Stilgar, dovrai fuggire da Sietch Tabr. È un ordine. Dovrai prendere Ghani con te, e…
– Tu non sei ancora il mio Duca! Sei un… un bambino!
– Sono un adulto nella carne di questo bambino, – ribatté Leto. Indicò una stretta fenditura tra le rocce, sotto di loro. – Se dovessi morire qui, sarà in quel punto. Tu vedrai il sangue… e allora lo saprai. Prendi con te mia sorella, e…
– Raddoppierò le tue guardie, – l’interruppe Stilgar. – Non ti lascerò mai più venire fra queste rocce. Ci allontaneremo subito da questo luogo, e tu…
– Stil, non puoi trattenermi! Rievoca ancora nella tua mente quel giorno, alla catena di Habbanya. Ricordi? Il trattore era là fuori, sulla sabbia, e un grande Creatore stava arrivando. Fu impossibile salvare il trattore dal verme. E mio padre era assai corrucciato, per la perdita di quel trattore. Ma Gurney riuscì soltanto a pensare agli uomini che avevano perduto la vita, lì, sulla sabbia. Ricordi ciò che rinfacciò a Muad’Dib? «Tuo padre si sarebbe preoccupato molto di più per quegli uomini che non aveva potuto salvare!» Stil, io ti ordino di salvare la gente. È molto più importante delle cose, degli oggetti. E Ghani è la più preziosa di tutti poiché, senza di me, lei è l’unica speranza per gli Atreides!
– Non voglio più ascoltarti, – ringhiò Stilgar. Si voltò e cominciò a calarsi fra le rocce, dirigendosi verso l’oasi, laggiù, al confine delle sabbie. Sentì che Leto lo seguiva. Poco dopo, Leto lo superò e, voltandosi a guardarlo, gli disse:
– Hai notato, Stil, quanto sono belle le ragazze, quest’anno?